Mi piace molto che Rita Aldrovandi abbia come metodo il “non esistere”: di HUBERT JUIN
(Hubert Juin pseudonyme de Hubert Loescher, né le 5 juin 1926 à Athus (Lorraine belge) et mort le 3 juin 1987 (à 60 ans) à Paris, est un poète, romancier, essayiste et critique littéraire belge d’expression française).
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Contrariamente a una idea comunemente diffusa che ha fatto la fortuna dell’invisibile in pittura, esistono dei rapporti tanto stretti quanto necessari per il poema e il disegno. In fondo, essi nascono da una stessa natura e s’impongono allo stesso modo con delle imprevedibili “apparizioni”i tengo a questa idea che se il poema può capitare in un tale momento propizio, la poesia c’è sempre: semplicemente può capitare di temdere la tela e di passare, in un lampo, dal “non detto” allo “espresso”. Essa veicola l’incoffessabile . Assomiglia all’uccello che interrompe il suo volo per scegliere un ramo, posarvisi e renderlo indimenticabile.
Mi piace molto che Rita Aldrovandi abbia come metodo il “non esistere”. E’ necessario che i tratti si ricolleghino esattamente sulla tela o sul foglio, come se essi esistessero già prima e nel misterioso tessuto di ciò che è dato. Ma questo dono non è semplice capriccio. L’operazione ha a che fare con l’alchimia: è una cosa che risale molto in là, “di dentro”, nel mondo delle forme, nell’impetuosità di un discorso fucae e tuttavia fertile.
Per ritornare all’uccello, i cinesi dell’antichità dicevano che appena esso si posa già prende il volo, e che l’oggetto del pittore era di “fissare” quell’impercettibile intervallo. A volte Rita Aldrovandi disegna come lo zen consiglia di tirare all’arco: chiudendo gli occhi percè appaia ciò che si èvisto. Allora s’inseriscono gli elementi – si direbbe geologici – di un mondo interiore singolarmente sconvolto e complesso: i fantasmi di ciò che abbraccia e protegge. Mineralizzate queste forme armate di denti, di coltelli, di cristalli acuti, ma anche di seni, di ventri, dell’assoluta dolcezza di corpi che si aprono, ecco che si desiderano, si prendono, si penetrano. Fisse, esse si muovono. Disdegnose, esse gemono. Offerte, brandiscono spade. E’ un corteo di metamorfosi che l’insolita precisione del tratto fa apparire. Poi il rituale si cancella lentamente, si immobilizza, calmando le grandi acque della sua impudicizia. In questo istante il pittore ritrova la pesante irealtà del “di dentro” – là dove lo scavo sottomarino continua, ma è come se qualcosa d’irrefutabile sia accaduto, si sia mostrato e resta là, ormai, a portata di tentazione. Turbato, lo spettatore diviene a sua volta speleologo, chiude gli occhi e si mette sulla strada insolita della poesia.
Rita Aldrovandi, scommetto, prende ispirazione dalle proibizioni della memoria. Il labirinto è una cosa, il cuore del labirinto un’altra, perché è là che respira il Minotauro. Solo i ladri del fuoco racchiudono il sale delle parole allorchè le parole dicono “altra cosa”. Non ha mai amato chi non è stato persuaso delle mostruosità dell’amore. Da quel momento, questa danza di linee, nelle opere di Rita Aldrovandi, sottolinea un avvenimento grave: la messa a punto di ciò che è nel profondo. E ci si convince a questo punto che il vero laboratorio, quello delle “opere favolose”, è nel “dentro”, nel punto più segreto, o meno confessabile (anche a se stessi, se non attraverso quelle sorprese difficili che sono altrettanto “catture”, come dicono i pescatori), o più trincerato. Nel sotterraneo. Rita Aldrovandi ce ne presente qui delle memorabili “riprese”-
( In “Chateaux De Platre” di Guy D’ Arcangues, poesie edite nel 1982 con 22 disegni della Aldrovandi da André De Rache a Bruxelles – GUY D’ARCANGUES ,nato nel 1924 figlio del poeta Pierre D’Arcangues, con la residenza avita nel “villaggio” D’Arcangues). Traduzione di Enzo Rossi-Ròiss