DI ADRIANO BERENGO GLASSBOSS SELFPROMOTER ORGANIZZATORE DELLA EXPO BERTIL VALLIEN Collaterale della Biennale Architettura a Venezia
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Imperdibile l’expo Bertil Vallien (svedese del 1938) nelle sale del Palazzo Cavalli Franchetti, collaterale prezzolata della Biennale Architettura (28.08 – 25.11.2012 in Campo Santo Stefano a Venezia). Imperdonabile che a tale artista non sia stata data visibilità espositiva a Venezia in concomitanza con una delle Biennali dell’Arte degli anni scorsi. E’ una expo retrospettiva allestita con opere plastiche vetrose made in Svezia, in contemporanea con l’expo Scarpa-Venini nelle Stanze del Vetro sull’Isola San Giorgio allestita con opere vetrose made in Murano. Vetrosità artisticata diversamente eccellente a confronto, quindi, anche diversamente massmediatizzata e accreditata, per collezionisti e studiosi, considerabile diversamente dalla vetrosità artisticata della Fucina degli Angeli esposta dal Museo del Vetro a Murano per celebrare Egidio Costantini e giubilarlo nell’anno centenario della sua nascita. In barba a ogni iniziativa espositiva da altri intrapresa col proposito di promuovere e tutelate la vetrosità artisticata made in Murano, presupponendola portatrice di plus-valore ineguagliabile e virtuosità inimitabili, come ho scritto redigendo altro testo. L’impresa è stata compiuta da Adriano Berengo (veneziano del 1947), imprenditore con fornace propria e tanto altro a Murano e Venezia, boss di Glasstress che nelle sale di Palazzo Cavalli Franchetti s’insedierebbe stabilmente come curatore e monetizzatore di esposizioni allestite con opere vetrose, pagando il dovuto a chi di dovere (come suol dirsi!), in barba (contrariamente) alla finalità statutarie dell’Istituto Veneto per le Scienze Lettere e Arti.
Lo stesso Adriano Berengo self made man (dall’ago al miliardo), biografabile con la narrazione di un vissuto che qui di seguito zibaldonizzerò ad usum narrazione più esaustiva.
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A Venezia, giorno verrà in cui sul muro esterno di un condominio popolare del Sestiere Castello, mappato al n.1442 della Calle Colonne nel complesso abitativo angiportesco nomato “Marinaressa“, con doppio accesso sulla Riva dei Sette Martiri, per chi si direziona a via Garibaldi, sarà possibile leggere una lapide incastonata per commemorare un enfant du pays, di quelli che ce l’hanno fatta, con incisa questa iscrizione.
Nell’appartamento sottotetto al secondo piano di questo condominio ha abitato Adriano Berengo generato da un falegname arsenalotto nell’anno 1947, destinato ad ereditare il 50% di 65 mq abitabili, scarsamente pregiati, in con-proprietà con l’unico fratello minore Roberto. Divenne imprenditore vetrario con fornace di sua proprietà e maestri vetrai suoi dipendenti, praticando (prima) e promuovendo (poi) il commercio di manufatti vetrosi modellati nelle fornaci di Murano d’aprés creazioni di artisti: tanto da arricchirsi a dismisura perchè naturalmente abile nell’organizzare la commercializzazione a caro prezzo perfino dell’invendibile senza prezzo.
Chi scriverà tale iscrizione, quasi certamente sarà un conoscitore dell’ enfant du pays, nomato come un famoso imperatore romano letteratureggiato da Marguerite Yourcenar. La scriverà un autore di epigrafi epigono di Emanuele Antonio Cicogna (1789-1868): l’insigne raccoglitore/trascrittore di testi lapidei commemorativi, editati col titolo “Delle iscrizioni veneziane“, in sei volumi tra il 1824 e il 1853. Sarà, perciò, un pubblicista che avrà scritto anche altro, divulgato da media cartacei per bio-bibliografare l’Adriano Berengo raccontato sommariamente come qui di seguito.
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Adriano Berengo ha cominciato a intrattenere rapporti ravvicinati con l’artisticità sposando Antonietta (già incinta), figlia acculturata di un pittore veneziano che ha trascorso la sua esistenza dipingendo e insegnando a dipingere senza gloria e senza infamia (Sandro Sergi 1922-1998). Disponendo di un sapere culturale scolastico acquisito presso un Istituto Tecnico Nautico (detto “dei marinaretti”) che lo ha diplomato radiotelegrafista, idoneo a insegnare l’apprendimento dell’alfabeto Morse (prima). Con possibilità di accesso, previo esame di ammissione, alla facoltà universitaria che lo ha laureato conoscitore della lingua inglese (poi), predestinandolo a intrattenere rapporti con persone anglofone.
Si è iniziato al commercio dell’oggettistica vetrosa muranese, sia decorativa sia d’uso, operando nel ruolo di “esterno“ (cosiddetto!) pro sale di vendita di alcune fornaci (Murano Venezia – Bisanzio – Marco Polo), incaricato d’intrattenere rapporti proficui con “sgaloppini“, “apportatori“ e “intromettitori“ (cosiddetti!). Fino al momento in cui, sperimentatosi come docente precario di alfabeto Morse e lingua inglese poco redditato dal 1977 al 1981, con moglie e primogenito (Marco) nato nel 1972 bisognoso di alimenti, rilevò parte di una fornace (la Bisanzio), associato ad altri (Roberto Salviato, Carla Rigo e Dino Giusto), per dare inizio alla sua attività imprenditoriale.
Ha ricoperto il ruolo di amministratore dell’azienda vetraria Marco Polo, maturando una liquidazione di 500 milioni pre-euro nel momento in cui decise di mettersi in proprio, come suol dirsi, ruolandosi titolare-ombra di una mini impresa commerciale, terrazzata sulla Marco Polo e intestata Scandiuzzi (fratello di Doriana), che nomò Pinocchio (per le tante bugie già dette, o che avrebbe continuato a dire), prodromo di ogni altra impresa “bugiosa“ successiva diversamente nomata.
Familiarizzando con Paolo Valle, artista veneto coetaneo nato nel 1948, compagno di bevute al Lido, ha conosciuto il pittore Riccardo Licata nato nel 1929. In Artefiera a Bologna ha incontrato l’artista austriaca Kiki Kogelnik (1935 – 1997) alla quale ha proposto con successo di ri-produrre in vetro le sue maschere create modellando ceramica. Ha intrattenuto rapporti di amicizia con Gianfranco Chinellato in dimestichezza con la scrittura poetica, senza divenire lettore di libri scritti da poeti. Ha gestito un primo negozio a Murano, rilevato da Simone Genedese.
Durante una vacanza alle isole Canarie ha incontrato una cittadina olandese (Rietje Mackenbach) separata dal marito e con figlio unico disadattato a carico, titolare di un bar frequentato da artisti a Arnhem, che ha poi assunto il ruolo di sua seconda moglie nel 1991, essendo nel frattempo la sua prima moglie (Antonietta Sergi) divenuta madre di due figlie concepite in rapporto di coppia con altro partner.
Come organizzatore di mostre d’arte allestite con vetri d’artista ha esordito a Casarsa della Delizia nel Friuli di P.P.Pasolini, replicandosi a Venezia in alcuni spazi del Museo Diocesano, con opere vetrose di Vito Galfano (olandese di origine siciliana) e Robert De Fritz.
Durante gli anni Novanta, ha prodotto e mercanteggiato in gran numero oggetti materiali costituiti da materiale vetroso artisticato, stimolato dalla moglie olandese (destinata a ruolarsi gallerista autonoma in location di proprietà personale, divorzianda nel 2000). Caratterizzandosi e propagandandosi anche come brand diversamente nomato ed eccellendo nel rebranding o Xe Service. Tanto da poter aspirare a divenire un giorno brand/lasciapassare per esporre in Art Basel, Fiac Paris, Arco Madrid, Artefiera et location espositive similari: fiere leaders oggetti di desiderio inibito dal 2000 (anno dell’unica presenza in Arco, “infortunata“ da una lite giudiziaria con Egidio Costantini de “La Fucina degli Angeli“).
L’arricchimento personale ha cominciato a realizzarlo insediandosi come Berengo Studio in Calle Larga San Marco 412-413, negli spazi di una ex farmacia d’antan, dove ha incrementato il mercanteggiamento e la monetizzazione, soprattutto durante i primi anni successivi al 2000, di una variegata pupazzetteria vetrosa policroma raffigurante antropomorfismi e zoomorfismi modellati da creativi naitiviteggianti (Vigliaturo, Zeppel-Sperl, Ripolles, Rezzonico et similia per es.), refrattari a ogni artisticità spiazzante e mortificante.
Fino all’anno 2009, anno primo di Glasstress, evento collaterale prezzolato della Biennale d’Arte insediato nel Palazzo Cavalli Franchetti a Venezia, mentore/madrina la glassologa Rosa Barovier Mentasti, con ticket per i visitatori: ibridato poi tanto da caratterizzarlo, già nel 2011, strutturato come expo collettiva fierizzata e remunerativa a priori, con curatela collettiva eterogena, acquisibile e curriculabile previa quota di partecipazione pagata anticipatamente da ogni singolo artista, oppure dal gallerista mercificatore di ogni singolo artista. Catalogo realizzato astutamente a posteriori con più copertine, ognuna concordata (commissionata) ad usum promozione dell’artista copertinato, previo acquisto anticipato di un tot copie.
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Scritto ciò, di Adriano Berengo considero opportuno continuare a scrivere ciò che segue, compiendo un esercizio di stile scrittorio a me congeniale.
Adriano Berengo è un imprenditore che interloquisce sorridente con ogni ipotetico cliente, esprimendosi con linguaggio imbonitorio sostenuto da gestualità giullaresca, ogni qualvolta mira a costituire un sistema patafisico di segni lusingatori forieri di occulta persuasione all’acquisto degli oggetti materiali vetrosi che propone e decanta come oggetti dotati di plus-valore artistico, custodia e garanzia di plus-valore monetario, dichiarandoli modellati tutti nella sua fornace a Murano.
Un imprenditore divenuto artefice incontestabile di una impresa organizzativa e commerciale esemplare, fucina d’interrelazioni redditizie delle quali è governatore “ubuesco“ autoritario, supportato da collaboratori, sia esterni sia interni, tutti ruolati “palotini“ con l’obbligo di applaudire ogni sua iniziativa e condividere ogni sua decisione, pena l’interruzione del rapporto lavorativo.
Un imprenditore che eccelle nella pratica del rebranding o Xe Service fiscoelusore/ingannatore, variamente nomato Venice Project – Berengo Studio 1989 – Berengo Centre for Contemporary and Glass: non più nomato (e fiscalizzato) Berengo Fine Art – Berengo Studio – Berengo Collection.
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L’iperluogo natio biografante che lo logotipa è Via Garibaldi, la lunga e larga arteria stradale veneziana che non risulta nomata Calle, contigua all’Arsenale nel Sestiere Castello: l’equivalente di un villaggio originario popolare angiportesco dove ha trascorso innumerevoli “sabati“ leopardiani adolesceziali…intra di quei / ch’ebbe compagni nell’età più bella, nel ruolo di aspirante imprenditore vetrario di successo.
La via Garibaldi complesso urbano memoriale location dei primi innamoramenti, di un primo matrimonio riparatore e dei disagi post-bellici patiti durante gli anni adolescenziali pre miracolo economico: dai quali non è ancora riuscito ad affrancarsi psicologicamente, malgrado il benessere economico miliardario conseguito e la promozione socio-culturale medio-borghese acquisita.
La via Garibaldi dove abita la zia materna Giulia novantenne, sitter e badante del suo primogenito Marco, educato e accudito dalla mamma, divenuta moglie prematuramente separata e poi divorziata, madre anche di due figlie concepite in rapporto di copia con altro partner.
La via Garibaldi (n.1533) del Ristorante Giorgione di Lucio Bisutto (folksinger dialettale veneto), dove il Berengo si reca frequentemente a mangiare le specialità delle isole della laguna con clienti-ospiti stranieri e conoscenti d’antan garibaldo-sestierati, agli occhi dei quali si esibisce nel ruolo di enfant du pays divenuto boss onusto di gloria imprenditoriale, che molto ha già ottenuto e tant’altro può ottenere, pagando i conti con varie carte di credito: cittadino veneziano residente al Lido in villetta unifamigliare di sua proprietà con moglie esotica (la terza) giovanissima, interrelazionato in più luoghi stranieri abitati e frequentati da anglofoni.
La via Garibaldi spazio pubblico collettivo dove intrattiene rapporti weekendificati con i due figli “infanti“ Hana-Mila e Adriano II°, generati già sessantenne con la giovane moglie Marya Kazoum, artista performer libano-canadese over30, che esibisce come trofei testimonials della sua virilità stagionata, anche ad astanti sconosciuti che lo ruolano nonno istintivamente, tanto risulta fuori ruolo fisicamente come loro papà.
La via Garibaldi dove risulta insediato al numero civico 1639 un negozio nomato Alice in Wonderland Fine Arts Gallery gestito da Sergio Parma, sperimentato venditore di oggettistica vetrosa e suo consuocero mancato: compagno d’incursioni commerciali giovanili in territorio straniero e co-dormiente in una Peugeot blu per economizzare alla fine di giornate concluse economicamente in bianco.
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CONCLUDENDO – C’è qualcosa di dolorosamente solipsisistico nella condizione di self-mad-man del Berengo, al quale il successo economico non risulta bastevole per l’affrancamento dal richiamo delle origini, nè dalla solitudine dell’uomo-isola. Un uomo divenuto artefice incontestabile di una impresa organizzativa e imprenditoriale esemplare, oltre che inemulabile, fucina d’interrelazioni commerciali redditizie delle quali è governatore “ubuesco“ autoritario e factotum autarchico, sospettoso di ogni individualità creativa portatrice d’intellettualità inassimilabile e incontrollabile.