Enzo Rossi-Roiss

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A FUTURA MEMORIA DI ROBERTO ROVERSI LETTORE/ESTIMATORE DELLA MIA SCRITTURA VERSIFICATA

Testi ripubblicati in “Poemi Doping”, I Antichi Editori Venezia 2008 (pp.285-289)

ROMANZESCHERIE

Convenzioni stravolte (con misura) e una certa malizia che tende a farsi preziosa. L’ammicco (intelligente e misurato, ma anche furbesco) in direzioni preordinate, o un poco ambigue – muoventesi cioè fra una immediatezza abbastanza rude, un realismo crudo (non dico crudele) e una tenerezza offuscata, un sentimentalismo che percuote alla memoria come rapidi colpi a una porta chiusa.
L’ambivalenza prospettica, questa sorta di strabismo ideologico (e insieme sentimentale, o sentimental-culturale) si traduce in un linguaggio che recupera stilemi del gergo poetico tradizionale e del gergo poetico “eversivo” – non dico d’avanguardia; mescolati (o inseriti) con molta indifferenza, con una indifferenza che non è presunzione ma che tiene proprio di quell’ironia sopraindicata.
Delineati in tal modo specifico e rapido i “confini” di questo operare poetico, e secondo una prospettiva di lettura (o di lettore) che può senz’altro apparire o essere parziale, dirò che dei testi che qui si presentano (o rappresentano), un dato condizionante, e anche positivo, a me sembra essere l’assoluta o strafottente “laicità”, una indifferenza tutta tesa alle cose o al giuoco delle cose e  per nulla memore di una certa sacralità (in ogni senso), o responsabilità, della (o nei riguardi della) poesia; dunque del testo. Il quale può apparire godibile, in prima istanza, come racconto in sé di cose accadute, di fatti o azioni veramente accaduti, o detti, o proiettati in scala come cose o azioni di tal fatta, senza gli abbellimenti e senza circoscrizioni sottilmente intellettuali; insomma come referti tipici di azioni in cui l’uomo è impegnato. E così è.
Si dà il caso, in una situazione qual’è l’attuale, abbastanza frastornata in superficie (e al fondo, invece, con ampie zone di resistenza decisamente conservatrici o reazionarie) nella modalità o nei modi d’intendere il lavoro letterario in genere, che proposte simili ( o simili testi) finiscano a collocarsi in una zona neutra, in apparenza poco sofisticata ma pervicace, in cui confluiscono ascendenze chiaramente delineate; e in cui una certa problematicità, abbastanza aggiornata nei termini e nelle implicazioni contemporanee, non finisce mai per risolversi in una scelta (organica). Parlavo di ambivalenza in questo senso, indicando un dato topico e non dando un giudizio o precostituendo limiti. E tuttavia l’ironia, a tal punto esemplificata da diventare strutturalmente portante, finisce per irretire il lettore stesso in un rapporto inquieto, dissuasorio da scelte (magari soltanto da scelte di letture) definite. Insomma, personalmente accetto la condizione  di lettore che mi offre, o a cui mi costringe, l’autore (abbastanza furbo), ma con qualche protesta – per una prevaricazione che distoglie puntualmente non dalle personali-private abitudini o dai quieti progressi del pensiero (non credendo al godimento estetico), ma, con qualche presunzione, dalla specifica utilizzazione dei miei parametri ideologici. In definitiva, trovando sostituito all’utile (che è la valida alternativa, non zdanoviana, al bello) non già il buono (che è il secondo termine, cattaneiano, del dilemma) ma il riso medio – che è un modo, a me pare definitivo, per scancellare ogni orgasmo della mente (certo, o almeno, nella direzione sopraindicata).
Queste brevi note, appena provocatorie nei riguardi dei testi di Ròiss, non intendono accennare ad alcun giudizio, a cui non mi sento autorizzato; ma indicare, in dettaglio, alcuni punti di frizione, perché possano servire a lettori d’altra specie (o non servire affatto a lettori agguerriti). Tali testi reggono all’urto, in ultima istanza, perché l’autore li dissacra in ogni modo, con aperta violazione delle regole, a cominciare dal titolo per finire alle personali esperienze. Questa l’ironia di cui si parlava, acerba ed esacerbata; ma non così esterna o fradicia o pungente e delusa che ferisca a morte i sentimenti; poiché (voglia o non voglia l’autore) resiste al fondo, ed è da considerare, un moto sentimentale, serpeggiante, che non si lascia inglobare né si lascia ibernare dall’intelligenza all’erta, o dal lazzo preordinato.
Infatti, come dice? Tempo fa ho conosciuto un uomo che appena sveglio, un giorno desiderò suicidarsi, ecc. E’ la favola dell’uomo e del bambino.
Sono altre favole, dell’amore e della morte.
(Pubblicato in “Diciamolo” n. 3, Edizioni Svolta Bologna 1969)

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Teatro La Vogaria a Venezia, Carnevale 2006: i “Carmina Vulvae” letti da Enzo Rossi-Ròiss (versione italiana) e Roberto Bianchin (versione francese)

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ROISS GRAFFITI

Cosa vuole Ròiss, cosa cerca Ròiss? E’ una prima domanda legittima, perché sembra sempre che egli giri intorno alle cose, tentandole. Con una certa ironia astiosa che finisce per allontanarle, nel momento in cui egli potrebbe allungare la mano per stringerle un poco. Forse perché piuttosto che guardare davanti, dove finge di guardare, Ròiss si sbircia sempre allo (a uno) specchio? Narcisista ironico e furibondo mutilatore di farfalle rese pazze dalla luce o da un lume? Fuori o dentro la realtà? Fuori o dentro a una qualche ricerca di verità? E’ tutto impegno o solo gioco?
Dato il manipoletto di domande che sopravvengono, si può evincere (come dicono i sindacalisti o i politici) che a un primo incontro la posizione, la fisionomia di questo autore che ormai non è più di primo pelo, è sfuggente: o almeno così può apparire. O non riesce a definirsi. Oppure tiene e contiene un poco di ciascuna verità, mescolandole e mescolandosi.
Forse sarà anche così, ma non credo. Anzi non lo credo affatto, altrimenti non starei qua a farmi domande in questo pomeriggio di domenica mentre fuori nevica e ho qualche problema urgente da risolvere. Credo, invece, che una riflessione in merito a questi testi ( e legandola a ciò che so e ho letto in passato di Ròiss stesso) possa servire un poco anche a me, stabilendo alcuni nessi dentro ai testi che tengo sotto gli occhi.
Intanto sono convinto di una cosa. Quale che siano le mie conclusioni finali (che cercherò di chiarire e spiegare, sia pure brevemente), i testi di Ròiss, e quindi questo autore, hanno una densità di umori, un respiro lungo e duro, un ansimare frequente di chi ha corso a lungo,che ne convalidano almeno l’autenticità di origine. Voglio dire che hanno motivazioni, o almeno alcune motivazioni di fondo, rilevanti. Nell’ordine del politico, intanto, che intendo come scontro diretto e non in prospettiva, ogni giorno, con la realtà che non ci piace e che, proprio per questo, e non perché ci offende direttamente, contestiamo.
Poesia politica, dunque? Poesia sociale? Poesia impegnata, secondo la vecchia aborrita formula? Direi, piuttosto, tanto per spiegarmi, poesia del reale. Non come volare sull’ala di un uccello di fuoco, ma come precipitare dalla sua ala.
Questa partecipazione sempre ingrummata dentro le cose, o sulle cose (viste e intese come “cose” generali), determina il moto sussultorio ma persistente, nel senso della durata, di questa scrittura e di questi testi che sembrano, sulle prime, nella successione, elidersi a vicenda (come se ciascuno, seguendo, spegnesse con un soffio il respiro del precedente), ma che in realtà, appena vengono considerati con la necessaria attenzione, si compenetrano, si recuperano, si sovrappongono, tendono ad accumularsi e a formare un unico canto, un solo lungo (e insistito) discorso.
Per esempio, i suoi “Graffiti” (la sua “visualità”). Non certo disegnati sul muro, come per una rabbia improvvisa; ma elaborati, selezionati, provati proprio per un lazzo calcolato; motivandone tutti gli umori, che restano scoperti (volutamente) ma non disarmati, non rapidamente cancellabili. A contrario. In questi segni c’è il senso, immediato, di una resistenza all’usura; direi, una resistenza al consumo; quasi si disponessero, così schierati in una successione da parata militare, a durare da inverno a inverno, ritenendosi non affidati a un fragile destino. E anche questo dato mi sembra una costante, positiva, in Ròiss:
Questa insistenza; questa apparente indifferenza per il risultato immediato; questa duplicità di atteggiamenti che tendono a premere contro i segni per stamparli, come una grande manata, sul foglio; al fine di una lunga durata e di una altrettanto lunga attesa.
Alle volte c’è come la sciatteria (calcolata) di una comunicazione rapida e pronta (da manifesto), altre volte una concentrazione affannata, ma resistente, di dati e segni che vengono enunciati e disposti con una precisione maniacale. A significare una vitalità e una inquietudine, dentro a una allegria un poco iraconda delle idee, che sono il connotato di questo solitario non rassegnato; anzi piuttosto giulivo dentro alle piccole tragedie, se può interrogarle o interromperle con i segni di una scrittura costante.
(Pubblicato nel catalogo della mia esposizione personale di poesia visiva alla Galleria Bonaparte,
giugno 1983 Milano. Ripubblicato nel libro “Solitario nel rifiuto”, Severgnini Ed. 1993)

Published by rossiroiss, on settembre 16th, 2012 at 11:34 am. Filled under: Enzo Rossi-RòissCommenti disabilitati