Enzo Rossi-Roiss

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RECENSIONI LIBRARIE

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testi scritti presupponendomi

il lettore più esigente e più critico

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Fotoritratto di Mario Rebeschini


Il dietro le quinte del Teatro La Fenice

narrato da un attrezzista

tramite una scrittrice di Pordenone

http://www.ilridotto.info/it/content/dietro-le-quinte-del-teatro-la-fenice

http://www.ilcannocchiale.it/member/blog/post/post.aspx?post=2785645

Diego Del Puppo, attrezzista del Teatro La Fenice a Venezia dal 1983 al 2001, artefice con altri e testimone di 100 allestimenti scenici (per opere liriche e ballettii), si è raccontato in azione tra le quinte (di sinistra) a una scrittrice di Pordenone, pugliese per quanto riguarda la sua originarietà, in dimestichezza anche con la scrittura lirica eseguita andando a capo spesso.
Alto 186 cm., pesante 100 kg., sprovvisto di arredo pilifero sia facciale sia craniale, modello gigante buono nato a Venezia il 29 marzo 1963 in Calle del Perdon 1303 (“…all’Ospedale della Pietà, dietro la chiesa omonima in Campo della Bragora”), dotato di un escursus scolastico interrotto alla fine del secondo anno di una scuola professionale, successivo al triennio delle scuole medie, si è raccontato a una maestra insegnante nelle scuole elementari, Maria Pina La Marca, che lo ha letteratureggiato e biografato in un libro intitolato “La mia Fenice” edito da Media Naonis a Pordenone (pp. 156 – bianche comprese – euro 10). Un libro che ho letto in 60 minuti o poco più, illustrato con 6 fotografie più12 documenti fuori testo. Scritto dalla La Marca col proposito di compiere un esercizio scrittorio rispettoso di ciò che le è stato raccontato in prima persona (a mozzichi e spizzichi, come suol dirsi) dal Del Puppo: ruolato voce narrante con frasi che risultano ben ritmate, periodi accortamente scansionati e pagine sapientemente architetturate. Esemplare il capitolo intitolato “Il ritorno”.
Tale libro ha una struttura a strati come certe torte, costituita da capitoli che si sovrappongono alternandosi per biografare il vissuto familistico del Del Puppo e svelare con rammarico il dietro le quinte di una esperienza di lavoro creativo interrotto per intraprendere l’attività lavorativa in un tappificio distante 35 km dal proprio luogo di residenza: Polcenigo, il paese natio del nonno paterno.

Il mio La Fenice” gli manca come titolo ad hoc. Lo segnalo come reperto bibliografico ai venezianofili…comunque, considerando preziosa l’aneddotica che lo farcisce.


“L’ULTIMA ESTATE IN CITTA’ ” DI GIANFRANCO CALLIGARICH

“L’ultima estate in città“ di Gianfranco Calligarich (riedito da Aragno) è un romanzo da leggere muniti di lapis ben temperato per la sottolineatura di ciò che può risultarci citazione opportuna, aforisma arguto, analogia felicemente concepita, intrigati da una narrazione d’antan intrisa di vissuto personale amarovitizzato (o sdolcevitizzato), strizzato e steso ad asciugare in una Roma fine anni 60 e principiante gli anni 70.
Un lapis per sottolineare subito l’incipit: “Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine”.
Il Calligarich l’ho conosciuto nel 1957 in Urbino, studente milanese del Corso di Giornalismo, già autore di testi scritti per narrare dei pirati (bucanieri) e della pirateria, che nel suo romanzo (p.26) risultano scritti dal protagonista Leo Gazzarra e utilizzati come supporti bibliografici da un altro protagonista (Renzo). Lo ricordo protagonista durante la Festa della Matricola, in rapporto di coppia con una piacente coetanea pesarese, disponibile e collaborante per ogni iniziativa dei compagni di studio.
Paolo Mauri ha recensito questo romanzo ne “la Repubblica“ (10.03.2010), segnalandolo come referto esistenziale, piccolo gioiello letterario già edito da Garzanti nel 1973, ironico e dolente insieme, protagonista un personaggio che dice “alzo le vele“ (la pirateria docet!) per dire “vado“ ogni volta che decide di andare: considerando “sfinocchiato“ chiunque (anche se stesso) gli rivela di aver toccato quel “limite“ che contrassegna il punto in cui una persona comincia ad arrendersi, perchè le cosiddette “cose“ non vanno per il verso giusto o non vanno neanche spinte.
Buona lettura col lapis in mano per eseguire, eventualmente, alcune sottolineature come quelle che seguono.

Siamo quello che siamo non per le persone che abbiamo incontrato ma per quelle che abbiamo lasciato (p.18).
La bellezza non puzza mai di fatica e di conquista ma viene direttamente da Dio e questo basta a farne la sola vera aristocrazia umana (p.53).

La città era così vuota che si sentivano i palazzi invecchiare (p.62).
Il silenzio era tanto che potevamo sentire il fiume scorrere sotto i ponti (p.66).
Sono sempre i denti a denunciare la povertà di nascita di una persona, i denti e gli occhi (p.76).
Dopo i tentati suicidi ci vuole sempre molta dignità (p.87).
Così lo lasciai lì a guardare la vita dalla posizione più tollerabile (p.90).

(Già postato anche in: http://www.iantichi.org/?q=node/465http://www.lampisterie.ilcannocchiale.it/ )

PRIVATI ABISSI DA LEGGERE IN UN ROMANZO DI GIANFRANCO CALLIGARICH

Durante la lettura del romanzo intitolato “Privati abissi” (Fazi Editore) di Gianfranco Galligarich, finito di stampare in aprile ma ricevuto in dono in marzo 2011, mi sono immaginato quasi subito hemingwayneggiato in compagnia dell’Autore su alti sgabelli al banco di un similHarry’sBar, entrambi insediati giovaniholden nella Capitale degli Anni Sessanta con molti gettoni nelle tasche per una lunga telefonata, provenienti da un lombardo capoluogo (lui) e da un salentino territorio (io). Supponendolo decenni dopo, “ a stagionatura praticamente completata”, ripensatore di una Storia già scritta, durante il funerale di un conoscente suo d’annata, all’ombra di alcuni cipressi, con nelle tasche medicamenti per pronto soccorso a scompensato e tenebroso muscolo cardiaco, “a oltre tre volte dieci anni di distanza” dagli accadimenti narrati.
Apprezzandolo come Raccontatore di Storie “di gente dotata di ciò-che-conta”, con descritti  non dialoganti protagonisti uno Sprangato Partner, “appartato dentro il suo fisico costruito senza economia”, predestinato a sorprendere una Tipa Mascolina impegnata a lesbicare nel lettone con donna provvista di corpo “pieno di riservate e non mantenute promesse“, sua frettolosamente ammogliata“con sorriso a sfottere su bocca robustamente fatta”,ex paterincestuata e traumatizzata da un Grande Disastro prematrimoniale causato dalla Grande Falciatrice, mandatario il Gran Padre-Dio.
“Privati abissi” è stato scritto dal Calligarich quasi certamente compiendo un esercizio scrittorio, dopo “L’ultima estate in città”, romanzo d’esordio Premio Inedito 1973. Per consigliarlo come lettura, a prescindere dalla trama riassunta nella bandella editoriale, ho scritto questo testo compiendo un esercizio di mimesi scrittoria.

Di un romanzo atteso come Godot intitolato “Principessa”
noir con “en travesti” e brividi inguinali sfogati “pour cause”

http://www.ilridotto.info/it/content/di-un-romanzo-atteso-come-godot-intitolato-principessa

Scrivo per consigliare la lettura di un libro edito nel 2013 da Bompiani col titolo “Principessa”, scritto da Gianfranco Calligarich (premio Bagutta nel 2012, ex equo col coetaneo Giovanni Mariotti). Un libro d’autore ultrasettantenne (più o meno mio coetaneo e…del Berlusconi, del Papa, di Robert Redford, di Arbore, di Lutring il bandito e di tanti Altri, compreso Carmelo Bene pace all’animosità sua!), scritto privilegiando la narrazione analitica e minuziosamente descrittiva (école du regard) più che farcita con dialoghi e divagazioni liriche. Un libro che ho letto in treno viaggiando da Venezia a Bologna e viceversa in giornata, annotando due digressioni “sterniane”: una teoria relativa ai suicidi bianchi o metaforici (p.88) e la simbologia del ventaglio manipolato per messaggiare (p.127). Un libro che non appartiene alla categoria del Libri Unici canonizzata da Roberto Calasso, patron dell’Adelphi: poichè non ha rischiato a lungo di non diventare mai libro, come il libro precedente dello stesso Calligarch edito da Fazi nel 2011 col titolo “Privati abissi”, (libro unico questo, invece, che si è servito per lunghi anni dell’Autore per esistere, periodicamente ri-strutturato e ri-compiuto come esercizio di stile, in attesa di un Godot editore), costituito da narrazione eseguita rispettando regole restrittive self-prestabilite per dare viva testimonianza della profondità dell’esperienza scrittòria sua genitrice.
Un libro istruzioni per l’uso (parafrasando l’OuLiPo-filo e fan Georges Perec), quindi e alla resa dei conti, il libro intitolato “Principessa” che consiglio di leggere. Già notiziato da prestigiosi media cartacei che lo hanno propagandato con enfasi, più che recensito, con anticipazioni di estratti, indicazioni bio-bibliografiche e riassunto della trama copiatincollati rispettosamente come nei comunicati (desiderata) editoriali, titolando come qui di seguito risulta campionariato.

Se una notte d’inverno uno spacciatore (Il Sole 24 Ore)
Gianfranco Calligarich racconta l’amore al tempo della droga
(Il Piccolo)
Il nuovo romanzo del Philip Roth italiano
(Satisfiction)
Quella Milano nera dove la Dark Lady portava i pantaloni
(Venerdì-la Repubblica)
Milano nella nebbia squarciata d’amore
(La Gazzetta di Parma)

Un libro scritto da un Autore di talento, voce narrante sperimentata e a suo modo sperimentale, in dimestichezza con la scrittura delle sceneggiature per narrazioni verosimili cinematografiche e televisive (tanti ciak in interni omologati, molto meno in esterni intercambiabili), conoscitore anche della scrittura e della messa in scena teatrale. Culturalmente attrezzato per considerare luoghi, persone, comportamenti, di volta in volta e in ogni caso, “sistemi di segni” da osservare e analizzare per “apprendere di” e “congetturare che”, prima di decidere il che fare (scrivere) e il come fare (scrivere) per facilitarsi la realizzazione dell’impresa libresca.
Protagonista uno spacciatore d’inverno a Milano (cinematografabile anche in esterni d’altra città), quarantacinquenne insediato astutamente per tre settimane in una camera affittata da un travestito nomato Principessa trentacinquenne, fan di film in bianco e nero, detentore di un malloppo supposto custodito cache nella sua stanza personale la cui porta è narrata chiusa a chiave e mantenuta inaccessibile. Fino al momento in cui non convola a nozze intrattenendo rapporti coniugali tra le lenzuola e altrove, con lo spacciatore colto da brividi inguinali sfogati ogni volta sbrigativamente soddisfacendo una faccenda fisiologica alla quale dà nome orgasmo soltanto due volte (pp.79 e 147). Col proposito di localizzare il malloppo cache, trafugarlo, utilizzarlo per pagare i malintenzionati che lo preoccupano e abbandonare una città impacchettata dalla nebbia, interrompendo anche ogni interlocuzione con gestori di bar cinomilanesi italianofoni privi della erre. Il “come va a finire” è narrato nelle ultime pagine.

ANNOTAZIONE – Samuel Becket (1906 – 1989) ha personificato in Godot il successo letterario atteso vanamente dopo la pubblicazione dei tre libri intitolati “Molly – Malone muore – L’innominabile” (vertici della letteratura mondiale, editi in Italia e poco venduti da Sugar 50 anni fa) e lo ha atteso fino al suo arrivo portato nel 1969 dal Premio Nobel.

Gianfranco Calligarich ha atteso il successo letterario a cominciare dalla pubblicazione del suo primo romanzo “L’ultima estate in città” (Garzanti 1973 – Premio Inedito accreditato da Cesare Garboli e Natalia Ginzburg). Buon pro gli faccia nella classifica dei libri più venduti questo intitolato “Principessa”!

LA MALINCONIA DEI CRUSICH

di Ganfranco Calligarich

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La malinconia dei Crusich” narrazione/historia familistica con istruzioni per l’uso di Gianfranco Calligarch, rammemorante “La vita istruzioni per l’uso” di Georges Perec esercizio scrittòrio narrativo logotipabile Ou.Li.Po (Ouvroir de Littérature Potentielle, docet Raymond Queneau & Italo Calvino) per certe ricorrenti costrizioni sia formali sia semantiche. Contiene sufficienti occulte istruzioni per l’uso fiction televisiva a puntate con piani sequenza già ben sceneggiati, oppure per l’uso filmico con durata centottanta minuti e tante riprese on the road sia urbane sia extraurbane eseguite emulando Michael Cimino. On the road a Trieste nei giorni della Bora incattivita, nell’Africa di Mussolini, nella Milano bombardata, nella Roma della Dolce Vita e in ogni altra location deambulata o viaggiata dai Crusich narrati. Da scrivere il dialogato assente nel romanzo libresco.
Così una mia prima sinossi redatta d’amblè.

Molloy – Malone muore – L’innominabile”, la trilogia narrativa datata 1951-1953 che ha fatto vagheggiare al Samuel Beckett l’incontro col successoGodot, la notorietà letteraria, royalty adeguatamente redditive: con al seguito il benessere economico trainato da premiazioni blasonate, senza smettere di desiderare quella del NobelGodot, da “attendere” giorno dopo giorno, fiduciosi individui viventi e scribendi attivi, gratificati da premianti preliminari come il Premio Formentor del millenovecentosessantuno, premio neonato attribuito ex aequo al duo Borges – Beckett.
Così una mia prima annotazione presuntivamente pertinente.

La malinconia dei Crusich”, è un libro cartaceo edito nel duemilasedici da Bompiani, impresa scrittòria compiuta da Gianfranco Calligarich durante quattro anni per narrare vicende famigliari autobiografanti, investigate come altre vicende di altra storia famigliare (Buddenbrook) narrate da Thomas Mann 26ienne nel millenovecentouno: l’anno d’inizio della historia che ha per protagonisti i Calligarich ricognomati Crusich. Sicuramente il Calligarich ha visionato album fotografici e filmati d’antan: esaminando documenti archiviati e sememizzando oralità testimoniali rammemoranti.
Trattasi, perciò, così di una impresa editoriale che materializza nel vissuto dell’autore un libroGodot con al traino i libri predecessori editati variamente, a cominciare dall’annata millenovecentosettantatre, che saranno rieditati da Bompiani e proposti come scrittura narrativa tutta meritevole di numerosi lettori.

Ciò pensato e così scritto, è possibile a questo punto scrivere che trattasi di letteratura miscellata alla sceneggiatura per film praticata dal Calligarich per redditarsi domiciliato a Roma: considerando l’insieme narrato una microstoricizzazione delle gesta esistenziali e delle relazioni politiche e sociali dei componenti di un gruppo parentale con avo cognomato Crusich, a cominciare dal 1901, ante-intra-post Seconda Grande Guerra Mondiale.
Per quanto mi riguarda considero il libro del Calligarich custodia di una narrazione saporosa e mai disgustosa: della quale consiglio di prelibare il gusto e il retrogusto. Una narrazione esemplare come esercizio scrittòrio eseguito rigorosamente disciplinato da ricorrenti e virtuosistiche costrizioni sia formali sia semantiche.

Come ogni frammento flashbakato progredendo nella scrittura successiva: …ventottesimo della sua lunga vita, sentantunesimo di quella ancora più lunga… etc. (p. 11 e 24) – … un logoro impermeabile bianco che su chiunque altro sarebbe stato una bandiera di resa e su di lui era invece una vela provata dal vento ma lo stesso capace di navigare comunque fossero le condizioni del mare (pp. 206 e 216) – ...con un estraneo in autonoma crescita dentro di lui che non sapeva se accettare o no (p. 241), – concepito da genitori migranti da Trieste a bordo di una nave diretta in Africa, terzogenito partorito durante un Anno Trenta terminale in Eritrea a Asmara, dopo un primogenito nato in Italia dieci anni prima e un secondogenito nato in Italia dodici anni prima.

Come le ricorrenti costrizioni formali e semantiche “NO ad a SI a a”, “NO ed e SI e e”.

Come millenovecentouno anziché 1901, ventottesimo anziché 28°, idem ogni altro anno calendariante, ogni altro …esimo graduatorio e ogni quantità numerata sememizzata.

Come gli aggettivi qualificativi predecessori dei sostantivi qualificati: sabbiosa impassibilità, giallo pallone, polveroso piazzale, leggeri soprabiti, solida determinazione, notturna oscurità, sudati scaricatori, sassose montagne, bianca città, magri e neri buoi, pulito odore, nera ragazza, chiassoso e notturno matrimonio, solitaria visita (pp. 115/129).

Come il lemma “così” incipit, anziché explicit, di numerosi capoversi.
Così loro due seduti
(p. 225). Così lui in quella loro prima lite (p. 225). Così suo nonno sulla poltrona di legno sopra la pedana (p. 227). Così il collaudo ufficiale del grande aereo (p.239).

Così corsificati ho exemplificato alcuni brandelli trascritti del romanzo LA MALINCONIA DEI CRUSICH: narrazione di fatti realmente accaduti e personaggi realmente esistiti, letteratureggiati non per ricordarli ri-cognomati Crusich, ma per non storicizzarli anagrafati Calligarich, destinatari comunque della dedica “… ovunque siano”, accomunati & accumulati dalla cognomazione col medesimo finalino CH croato.
Cosi notiziato & promosso, recensisco il libro di uno scrittore da me in-camerato nella Casa dello Studente a Urbino durante gli ultimi Anni Cinquanta, a cominciare dal millenovecentocinquantasei, anno dell’Ungheria invasa dall’URSS.

Il Piccolo di Trieste lo ha recensito per primo titolando: Calligarich racconta i destini di famiglia in un secolo d’Italia (16 settembre). Tempestivamente divulg-feisbuk-ato: Attendendo Paolo Mauri con “la Repubblica” et omologhi.
Al seguito ogni altra recensione con la rituale sinossi editoriale pierrata, farcita con divagazioni attinenti la cifra narrativa, il virtuosismo stilistico, la tessitura narratologica et altro non sememizzato trasparente celato in filigrana nelle 428 pagine con stra-fitte righe da leggere.

Gianfranco Calligarich è già stato premiato con l’Inedito nel 1973 e il Bagutta nel 2012 (es aequo con Giovanni Mariotti). Si attivi chi può perché sia premiato nel 2017 col Campiello, oppure con lo Strega.


Ha avuto inizio la marcia di avvicinamento mediatico

di Gianfranco Calligarich

ai PREMI STREGA E CAMPIELLO 2017

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Notiziato, giudicato e promosso ad hoc, domenica 2 ottobre dal “Corriere della Sera” (Ermanno Paccagnini) e lunedì 3 ottobre da “la Repubblica” (Paolo Mauri) il nuovo romanzo di Gianfranco Calligarich edito da Bompiani col titolo “La malinconia dei Crusich” è possibile pronosticarlo concorrente ai premi Strega e Campiello 2017. Come l’ho preconizzato scrivendo il testo che ho webizzato nel blog del mio sito personale il 22 settembre (http://www.rossiroiss.it/blog/?p=1415).
Considerando contentino minore ogni altro Premio letterario italiano.
Considerando tale libro contenitore di un esercizio scrittòrio post Holden sbariccato & sbariccabile.
Anche rieditabile, rivisto e arricchito come è già accaduto al “Posta prioritaria”, con 7 “storie” inedite aggiunte alle storie edite da Garzanti nel 2002. Come è accaduto ai “Promessi Sposi” rieditato più volte dal Manzoni con revisioni & aggiunte.
Il Calligarich ci pensi su e dia inizio, appena possibile, ai lavori di scrittura per farcire il già narrato malinconicamente. Ci narri il Gino Crusich
futuro o già fotografo (letteraturizzazione di se stesso scrittore): nel 1954, l’anno della restituzione di Trieste all’Italia – nel 1956, anno della Ungheria invasa e occupata dalla Unione Sovietica, studente che non ha ancora deciso di “buttare via i libri e la scuola” (un istituto tecnico) – nel 1968 anno storico della rivolta studentesca, docu-fotografo emigrato a Roma – nel 1978 sceneggiatore televisivo trasteverino, durante l’anno dell’Aldo Moro rapito e ucciso dalle Brigate Rosse. Narrazioni assenti nel libro pubblicato.

Paolo Mauri, il medesimo de “Il Cavallo di Troia” trimestrale (1981-1989) ha scritto: “L’intero romanzo è una sorta di caleidoscopio pieno di storie, di luoghi e di personaggi anche misteriosi. Uno di loro, veterinario, verso la fine del libro (pagine dalla 426 alla 438), cura un falco ferito e poi lo libera perché possa tornare a sprigionare la sua immensa forza. E’ una pagina bellissima, la metafora, credo, dell’intera storia”. Concludendo la sua lunga recensione con istruzioni per la degustazione “letturale” della intera narrazione: “Una saga, come quella dei Buddenbrook o dei Buendia”.
Ermanno Paccagnini ha concluso scrivendo
questo explicit: “Romanzo che si distende in una narratività della quale resti felicemente prigioniero, per quel suo portarti dentro, facendoti vedere ciò che racconta”. Dopo aver rammemorato il Fulvio Tomizza autore de “La miglior vita” e Arturo Loria narratore de “Il falco”.

Poichè nella narrazione del Calligarich, “….la presenza umana è ridotta alla funzione dell’occhio di chi narra, a uno sguardo personale passivo che intende avvicinarsi a quello della fotografia o della macchina da presa” (per dirla con parole di chi ha dimestichezza con i narratori della cosiddetta “Scuola dello sguardo”), qualcuno dei prossimi recensori ci evidenzi eventuali tracce del “Nouveau Roman” d’antan.

Published by rossiroiss, on ottobre 3rd, 2016 at 3:09 pm. Filled under: Enzo Rossi-Ròiss • Commenti disabilitati

TRATTASI DI UN LIBRO DELLA CATEGORIA DAN BROWN
CON OMICIDIO-SUICIDIO MISTERIOSO NEL SALENTO
PER LETTORI AGOSTANI ACCASATI IN VILLAGGI VACANZE

http://www.facebook.com/note.php?created&&note_id=10150312439513473

http://lampisterie.ilcannocchiale.it/post/2677326.html

http://www.iantichi.org/node/593/edit

Ho ricevuto in dono un libro costituito da tante pagine quante risultano le pagine di quattro libri de La Biblioteca di Repubblica: allegati uno ogni sabato al quotidiano. Esempio: Arthur Scnitzler n.3/112, Herman Malville n.8/112, Marcel Proust n.12/128, Oscar Wild n.14/128: totalizzano 480 pp. Il libro che ho ricevuto in dono totalizza 494 pp. Lo ha scritto Enzo Varricchio, s’intitola Quell’estate prima della fine del mondo, lo ha pubblicato Giuseppe Laterza, editore barese come l’autore che si reddita esercitando la professione dell’avvocato: animalista, vegetariano, in rapporto ravvicinato con lo Yoga.
Non è il diario di una vita eccezionale, né l’autobiografia di un uomo eccezionale.
È il prodotto letterario di un pugliese ostinato nel soddisfare il bisogno personale di conoscenza e accrescimento culturale, in dimestichezza con la scrittura letteraria. Un contenitore cartaceo divulgatore di un melting pot etnico-culturale, farcito con digressioni e citazioni iperdialogate che zibaldonizzano ciò che l’autore ha “imparato” accumulando il suo capitale di conoscenza libresca e conoscenze socio(anche logiche)-politiche-mondano-artistiche-economiche etc, fino allo scrittore Moccia e  all’attore corregionale Scamarcio.
Trattasi di un libro di narrativa della categoria Dan Brown per il Grande Numero  la cui lettura si arruffiana il lettore di pagina in pagina conducendolo in un iper luogo nomato Rosadimare (il più bel fiore e il liquido primordiale), villaggio vacanze per benestanti insediato sulla costa salentina adriatica nel territorio comunale di Ostuni. L’autore lo ha scritto eccellendo, in alcuni capitoli, nella costruzione di analogie provviste del “come” che esemplifico campionariate, dopo averle  sottolineate:

-         rincoglionito e frustrato come un granchio sbattuto nel secchiello p.36

-         come vecchie cianfrusaglie ritrovate negli scatoloni in soffitta p.38

-         come due paracadustiti impigliati sul ramo di un albero p.41

-         come un astronauta sganciato fluttuo nel vuoto p.52

-         si dissolvono nella notte come punti neri nell’inchiostro p.71

-         grondare sudore come un eschimese incarcerato da un’ora dentro un hammam p.82

-         ammosciato come un pupazzo la cui carica sia terminata p.287

-         per insufflargli ossigeno, come il soffio divino che dà la vita p.314

-         da cui si può uscire, come si esce da un brutto sogno p.427

-         nero come un gigantesco moscone p.479

-         lottano nel cielo come dronghi asiatici a difesa del nido p.479

Ho ricevuto in dono, quindi, un libro che contiene più libri che hanno per argomento la costa salentina nel periodo delle vacanze estive, la popolazione pugliese con i suoi riti e i suoi miti, la microstoria locale di ogni “loco” tra i due mari (Adriatico e Jonio) – come risulta riassunta esemplarmente nel cap.XV da pag. 343 in poi: astuzie utilizzate come bigiotteria, per adornare con esercizi di scrittura erudita un intreccio narrativo del genere giallo-esoterico-codicedavinci con suicidio-omicidio iniziale e soluzione finale di ogni mistero (quasi), metaforicamente (in)quadrata in un cerchio, destinato a risultare datato dai riferimenti a fatti e personaggi della cronaca più recente.
Siccome alcuni PM sono impegnati in ulteriori indagini, però, chiunque abbia letto (oppure leggerà) questo libro, eviti (comunque) di conversare al telefono con chiunque voglia commentare i fatti narrati come fatti realmente accaduti a Rosadimare: poiché …tutto inizia e finisce in questo luogo, durante le 24 ore di una giornata ferragostana. Assenti giustificati  la Daddario, Valter Lavitola e Gianpi Tarantino di tutt’altre trame narrative argomento e protagonisti.
Pag. 481 – Un giallo avvincente, meglio di Brembate, Avetrana, Perugina e Garlasco messi insieme: una bomba, dieci morti, tra i quali un alto magistrato e due minorenni, barbaramente assassinate, con tanto di setta satanica come ciliegina sulla torta. A pag 431 il riassunto della trama.

DI UN LIBRO/ALBO/CATALOGO
INTITOLATO “NOVOLI…IMMAGINI D’ANTAN”

http://lampisterie.ilcannocchiale.it/post/2666450.html

Grande merito sia riconosciuto all’Amministrazione Comunale novolese per aver patrocinato la pubblicazione di “Novoli… immagini d’antan” (Il Parametro Editore 2010 ), un libro/album/catalogo, concepito e realizzata da Mario Rossi e Piergiuseppe De Matteis. Si tratta di un pregevole contenitore editoriale per la custodia a futura memoria di cartoline illustrate e foto istantanee amatoriali scattate per documentare un insieme urbanistico salentino d’annata che cinquant’anni e più dopo ci risulta inalterato, esclusi alcuni ritocchi e risanamenti effettuati per contrastare il degrado e ordinare l’eccessivamente disordinato. Gli autori lo hanno realizzato con una dedica nella quale si legge “…a tutti i giovani di Novoli perché non dimentichino mai il luogo in cui sono custodite le proprie origini”. Senza presupporre l’utenza dei nati a Novoli che hanno radicato in altre realtà socio-politiche-culturali le origini di ciò che sono nel 2011. In un mio coetaneo che è stato giovane irrequieto a Novoli nel 1954 (l’anno che data molte delle immagini pubblicate), predestinandosi a risiedere e  realizzare la propria evoluzione intellettuale e i propri sogni altrove, abitando e lavorando in altri complessi urbanistici, l’esame comparato di molte foto che illustrano lo ieri e l’oggi delle stesse realtà urbane novolesi non ha suscitato alcun rimpianto del luogo natio.  Un luogo in cui è stato giovane creativo ambizioso e intraprendente, residente dalla nascita e durante gli anni successivi al 1954 fino al 1960, come la gran parte dei suoi compaesani (10.000), in case  “scomphortate” sprovviste d’impianti igienici e acqua corrente, con gli affacci su strade disastrate, prive di fognature urbane per lo scarico dei liquami famigliari et l’etcetera documentato dalle foto edite da Il Parametro Editore.

DI UN LIBRO INTITOLATO “NOMI E COGNOMI… TANTO DI CAPPELLO !”
(scritto da Valerio Cappello e vignettato da Zap & Ida)

Tra nomi e cognomi con tanto di Valerio Cappello, scrittore ameno e docente esperto di diritto di famiglia, per apprendere che il nome deve essere unico, poiché il nome plurimo non ha diritto di esistenza legale, dilettandoci con cognomi e nomi stravaganti che possono essere cambiati o nomi di santi inesistenti: come tra monti e valli con tanto di guida sperimentata per distinguere varietà botaniche, riconoscendo le specie faunistiche. In questo libro, edito a Bologna da Arnaldo Forni, risulta scritto dei nomi e dei cognomi come micro-sistemi di segni con i quali “diciamo che…” e “diciamo a… ”: dicendo, per esempio, della fede religiosa, oppure di quella politica di chi li ha attribuiti ai propri figli apena nati; oppure della decisione genitoriale di autogratificarsi manifestando a futura memoria interessi personali per la letteratura, la mitologia, l’arte, la musica, lo spettacolo, lo sport, i protagonisti della storia sacra e profana e quant’altro ragionevole o irragionevole. Nomi e cognomi che, ciò che dicono, lo dicono con tanti altri significati, sia impliciti che espliciti, compresi i significati “doppi” che generano commenti e domande, nel momento in cui sono letti o ascoltati da chiunque per la prima volta.E’ stato scritto da un avvocato illustre con l’intenzione di divulgare, divertendosi, sapienza specifica divertente… vignettata da Zap & Ida.

LE SAPONETTE MAGICHE di Costanza Savini
http://lampisterie.ilcannocchiale.it/2005/01/14/costanza_savini_nella_sala_del.html

L’invenzione (creazione) dei suoi personaggi e la struttura dell’intreccio (trama) connotano Costanza Savini come narratrice plastica del tipo demoniaco anarchico, teorizzato da Livio Rusu. Il suo libro (edito da Campanotto col titolo “Le saponette magiche”) contiene elementi che con certezza possiamo ritenere biografici, adattati e trasformati in modo tale che hanno perso il loro significato specificatamente personale, fino a risultarci trasformati in materiale letterario concreto e umano, parti integranti di un’opera che ambisce a conseguire la comunicabilità più oggettiva. Ragion per cui non è facile separare ciò che è pura fantasia, da ciò che è osservazione realistica e da ciò che è soltanto espressione dei desideri dell’autore. Le fantasie de “Le saponette magiche” ci risultano modellate come una specie di nuova realtà, giustificate come validi riflessi della vita reale.
Costanza Savini è una sognatrice che, scrivendo, si allontana dalla realtà per non venire a patti con l’esigenza di rinunciare a fantasticare giochi liberi, durante i quali soddisfare istintivamente i suoi desideri più segreti e ambiziosi. Poiché, piuttosto che alterare il suo carattere, è decisa a perpetuare le sue fantasie dotate di valori simbolici, dei quali è possibile cogliere l’essenza soltanto se si esplorano con circospezione le profondità dei sentimenti che le sostanziano.
(apparso in “Art ut Art” aprile 2003 e in “Zeta” luglio 2003)

ADDENDA ALLE SAPONETTE MAGICHE

Appena conosciuta, Costanza Savini, l’ho considerata portatrice sana di una eccellenza parziale prevalente nella totalità delle altre eccellenze parziali che costituiscono la sua dote emozionale e intellettuale: l’eccellenza letteraria che si può manifestare soltanto compiendo esercizi scrittòri con l’intenzione di metamorfosare o allegorizzare esistenzialità sempiterna e universale. Perciò l’ho guidata e sostenuta nella scrittura de “Le saponette magiche”: fino a farla aprezzare e sostenere da Antonio Faeti e Antonio Saliola, edita da Campanotto e destinata a farsi apprezzare anche da lettori e lettrici di ogni età: per l’immaginazione, l’invenzione e la fantasia che connotano le sue narrazioni.
Tante bambini sono protagoniste suoi simulacri, però, dei suoi racconti, nessuna ha nome Costanza: tutte sono suoi simulacri, però, e la rappresentano. Un suo autoritratto è dissimulato nel racconto intitolato “Carla scrittrice perfetta”: autoespressione pura e semplice, oppure trascrizione di sentimenti e di esperienze personali.
Le saponette sono “magiche” in due racconti soltanto: negli altri racconti sono magiche altre presenze strabilianti che si attivano in una natura strab
iliante. Perché cono magici i fiori e gli insetti con i loro odori e colori, sono magici i boschi e i luoghi, i frutti e gli animali così come è magico l’alternarsi delle stagioni.
Il diletto e l’utilità coesistono nel libro della Savini: riflessi di sogni piuttosto che di vita reale
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DI UN ROMANZO INTITOLATO “IL LAGO IN SOFFITTA”

Costermano può essere annoverato come iperluogo letterario nel Dizionario delle Opere e degli Autori. Costanza Savini, giovane scrittrice residente a Bologna e sua abitante periodica, lo ha prescelto come deposito di vite vissute e fantasticate per un libro intitolato “Il lago in soffitta” edito nel 2007 da Mursia, già notiziato nel marzo 2004 col titolo “Sfollati a Costermano”.
In questo libro è narrato il soggiorno in una grande villa padronale, ben nota ai costermanesi, nel periodo della Repubblica di Salò (1943.1945), dei componenti “sfollati” di più nuclei famigliari (quattro). Imparentati e comproprietari sia dell’immobile che dell’azienda agricola annessa, costretti dal regime fascista a ospitare un generale repubblichino con moglie e cinque figli.
Costermano risulta già iperluogo letterario nel primo libro della Savini, pubblicato nel 2002 dall’editore Campanotto col titolo “Le saponette magiche”. Il nuovo libro, che ha la struttura e la corposità di un racconto lungo quanto un romanzo medio, però, lo sovradimensiona sino a farlo risultare luogo magico come il Macondo di Garcia Marquez. Un luogo magico nel quale sono state vissute realtà magiche, stabilendo rapporti magici con le cose, le piante e le persone vive e defunte.
La quantità di vissuto personale che Costanza Savini ha riversato nei racconti già pubblicati, continuando a riversarla ne  “Il lago in soffitta”, è notevole. Il “tempo” che fu dei suoi Avi, fino ai suoi genitori, con reviviscenze nel tempo attuale, è narrato con puntigliosità e precisione. Quasi certamente, la giovane scrittrice ha scelto di narrare il periodo storico dello “sfollamento” della sua famiglia, da Bologna a Costermano, e degli altri  parenti con residenze in altre città bersagliate dai bombardamenti, alla ricerca di ciò che è stata la sua adolescenza nella grande villa sulle pendici del monte Baldo, di fronte al lago di Garda: per mettere a fuoco la propria identità interiore ed esteriore (abiti compresi) nel tempo della sua esperienza scrittòria.
La verosimiglianza delle vicende narrate risulta compiuta. L’epoca storica e gli accadimenti che la connotano è indiscutibile, oltre che dettagliata, anche per quanto riguarda le date.
Come protagonista principale, al lettore s’impone l’adolescente Nina, onnipresente e iperintraprendente: inequivocabilmente alter-ego della scrittrice che la rivive reincarnata in sé consapevolmente e con compiacimento. Nina è un’adolescente che si è predestinata a diventare scrittrice, affascinata da tutto ciò che riguarda l’esoterismo, attenta a cogliere ogni manifestazione dell’invisibile, attratta dal mistero. Ragion per cui effettua incursioni nel paranormale, nello spiritismo e nei fenomeni di percezione extrasensoriale, coinvolgendo i cugini coetanei nelle sue ricerche e nei suoi esperimenti, i cui esiti sono rivelati nelle ultime pagine.Concludo scrivendo che Costanza Savini ha progettato e realizzato il suo nuovo libro come “libro per tutti”. Il “vero storico” lo ha appreso, ovviamente, dai genitori: successivamente lo ha “verificato” leggendo libri e conversando con persone coetanee dei genitori. Il “nerbo” dell’intera narrazione è costituito da un notevole biografismo trasfigurato in invenzione letteraria verosimile. Le incursioni nel paranormale si fanno supporre supportate da conoscenza sperimentata e non soltanto libresca. (Riscrizione di un testo apparso ne “Il Borgotto”, marzo 2004)

IL SESSO DELL’ANGELO dostanza Savini

Pitigrilli (Dino Segre 1893-1975) ha intitolato nel 1952 “Il sesso degli angioli”, uno dei suoi numerosi libri “impertinenti”. Giorgio Celli e Costanza Savini hanno intitolato “Il sesso dell’angelo” sette racconti brevi “al femminile” editati in formato 32° da Campanotto con foliazione complessiva di pp.48, risguardi compresi.
Le due pubblicazioni, però, hanno in comune soltanto la parola “sesso”. Da Pitigrilli inteso “
sesso” di tutti gli angioli, dal duo Celli-Savini inteso “sesso” dell’angelo canonico e single.
Sesso dell’angelo donna portatore di consolazioni occasionali o risarcitorie.

Sesso dell’angelo uomo destinato a non piacere gran che alle donne, a cominciare dall’infanzia: non solo perchè portatore di punizioni e per le sue fattezze (risultando talvolta malmodellato), ma anche per talune allusioni/illusioni di “aspettative” goduriose simulacrate nel proprio immaginario.

Trattasi, perciò, di brevi narrazioni “favoleggianti” scaturite dall’attività scrittoria di due autori, diversamente connotati per quanto riguarda il “genere” personale: sia sessuale sia intellettuale, in rapporto amicale “intramontabile”.
Sette narrazioni eterogenee che non hanno alcunchè in comune col sesso manual
-narrato da Jolan Chang scrivendo “Il Tao dell’Amore”, né col sesso del romanzone cinese (scritto nel 1500) intitolato “Chin P’ing Mei” (d’autore non identificato). Sette narrazioni scevre da ogni didattismo esplicito, con nessuna descrizione di ammanamenti audaci.
Unico angelo ipersessuato o sessualizzato un
simil-Casanova nomato Cesare Vivaldi, portatore di uncarico di sogni proibiti”, nel momento in cui si autorivela bisessuale: custode del segreto dei suoi veri desideri, amatore efficiente e soddisfacente soltanto nel ruolo di amante di femine immaginate maschili durante l’amplesso.

Storie falliche e della “cunnina”
In un libro maledetto a Venezia nel 1500

Nella Biblioteca Marciana a Venezia è conservato (quindi, accessibile) un rarissimo libro stampato in prima edizione a Venezia nel 1526 e mai più ristampato, relegato nel limbo dei libri maledetti (quindi, proibiti), a cominciare dal 1566 per decisione del Consiglio dei Dieci, dopo attento esame dei due patrizi Lorenzo Priuli e Gasparo Contarini non ancora cardinale, per l’iniziativa dei frati minori osservanti di San Francesco. Ha per titolo “Libro della origine delle volgari proverbi”, lo ha scritto Aloyse Cinthio de gli Fabritii (1466ca – 1530), componente di una gloriosa schiera d’autori di libri maledetti che per taluni studiosi ha in Dante l’iniziatore.
Cinque secoli dopo Spirali Edizione ha pubblicato una sua trascrizione letterale, con una dotta prefazione di Francesco Saba Sardi. Argomenta e commenta 45 proverbi disposti in terzine , ognuno in tre cantiche, per un totale di circa 41.000 versi endecasillabi, scritti con linguaggio volutamente latineggiante  ricco di dialettismi veneziani.
E’ un libro scritto con intenti satirici e comici, emulando Aristofane, Menandro, Plauto e Terenzio:  deliziosamente imperfetto imprevedibile, sragionante, di ardua accessibilità: a riprova (e conferma) che la follia è condizione del viaggio artistico, poiché la follia dell’arte non è la follia del mondo ma dell’invenzione. Un libro scritto da un erudito per lettori eruditi, ricco di storie falliche e di vicende della “cunnina”, un’opera che è insieme erotica e pornografica, che narra vicende bizzarre e paradossali con frati e chierici (cherci) lussuriosi e ingannatori.

“La retorica delle puttane” sovversiva a Venezia
Libro d’autore decapitato ad Avignone nel 1644

Ferrante Pallavicino nasce a Parma il 23 marzo 1615. Manifesta in età adolescenziale interessi per la lettura e per la scrittura. Veste l’abito talare nella casa della Passione a Milano, esclusiva di famiglie nobili e distinte. Concluso il ciclo di studi inferiori a Milano, dà inizio al ciclo di studi superiori optando per il modello scolastico tipico dei collegi della Compagnia di Gesù. Ottiene dal suo Superiore lombardo il permesso di recarsi in Francia, ma non vi si reca perché si è innamorato di una giovane veneziana: si reca, invece a Padova, dove scrive tante lettere ai conoscenti nelle quali si descrive in viaggio nelle varie province francesi, e un panegirico in lode della Serenissima, intitolato “Il sole ne’ pianeti” che gli vale la simpatia e la protezione del Senato veneto. Nel 1635 comincia a soggiornare stabilmente a Venezia “reina di tutte altre città”: perché è innamorato di una veneziana, ma anche per naturale inclinazione, per affinità elettiva. Poiché Venezia, in quel momento,  gli risulta essere per eccellenza il luogo della libertà, violenta e beffarda avversaria di ciò che anche lui ha in odio più grande: Compagnia di Gesù, Spagna, Corte di Roma. A Venezia risiede presso il convento dei Canonici Lateranensi, detto della Carità, e per qualche anno indossa l’abito di tale ordine osservando formalmente la regola, intanto che intreccia relazioni con le prostitute, frequentando luoghi cittadini poco raccomandabili. Particolarmente l’Accademia degli Incogniti, fondata nel 1630 da Giovanni Francesco Loredan: un’accolita d’intellettuali irregolari di provata empietà, puntualmente indagata e segnalata dai compilatori dell’Indice dei libri maledetti e proibiti. Scrive libri che i librai commercializzano con grande profitto degli stampatori. Trascorre sedici mesi in Germania come cappellano del Duca d’Amalfi. Durante l’estate del 1641 torna a Venezia. Pubblica un libro/epistolario intitolato “Corriere svaligiato”. Monsignor  Francesco Vitelli,  Nunzio apostolico a Venezia, sostenuto dalla maggioranza del Senato cittadino, contende alla Corte di Roma il diritto di perseguirlo come autore di un libro “disdicevole”. E’perciò arrestato e incarcerato. Sei mesi dopo torna in libertà, senza essere stato processato. Il  “Corriere svaligiato”, però, è proibito nell’intero stato veneto. Dal marzo 1642 comincia a vivere nell’angoscia, causata dalla persecuzione sempre più tenace concordata dai suoi detrattori Francesco Vitelli e Francesco Barberini. Abbandona per due volte la sua residenza nel convento, rifugiandosi presso l’amico Giovan Francesco Loredan. Durante il mese di giugno abbandona Venezia, continuando a scrivere testi velenosi e irriverenti contro il Nunzio apostolico, il Pontefice e la Corte di Roma. Gli sono attribuiti due libri intitolati “Baccinata” e “La retorica delle puttane”, entrambi stampati alla macchia, considerati pregni di virulenta satira antibarberiniana e antigesuitica, e perciò meritevoli di essere inquisiti. Scappa in Francia, dove un falso amico facilita il suo arresto ad Avignone. E’ consegnato all’Autorità ecclesiastica del luogo francese nel gennaio 1643 che lo processa e lo condanna a morte per “lesa maestà divina e umana”. E’ decapitato nella piazza antistante il Palazzo dei Papi il 5 marzo 1544, non ancora ventinovenne, “unico libertino italiano a meritarsi il patibolo dei papi”. Considero alcuni suoi testi meritevoli di lettori miei contemporanei, concordando con Laura Coci che ha scritto: “Un autore come questo merita di trovare ospitalità in una collana di classici della letteratura, in quanto è un vero classico della controletteratura”.

L’identikit della bella donna
abbozzato da Federigo Luigini nel 1554

Ve l’immaginate cinque dotti benestanti dei nostri giorni, narrati da uno scrittore contemporaneo ospiti in vacanza nella tenuta di caccia di uno di loro, impegnati a tracciare l’identikit di una bella donna, dopo aver concluso che nessuna delle loro partner in carica la incarna?
Ve l’immaginate cinque gentiluomini nostri contemporanei bene accasati, impegnati a turno durante le ore serali di tre giorni consecutivi e dopo aver trascorso la giornata cacciando aironi, anitrelle e qualche uccello di passo, descritti come bibliodisquisitori del colore e della lunghezza dei capelli e degli occhi, dell’ampiezza della fronte, della forma del naso e delle labbra e del mento e di ogni altro particolare fisico femminile, procedendo dall’alto in basso, senza trascurare le zone erogene?
Non immaginateli, perché li ha sognati e già narrati l’autore del libro intitolato “Della bella donna” stampato a Venezia nel 1554 in 8° per conto di Plinio Pietrasanta, autore Federigo Luigini. Un rarità bibliografica introvabile nelle librerie, la cui ultima pubblicazione moderna è datata 1925 (vol.XXIV della collana “I classici dell’amore”, L’aristocratica, Milano).
I cinque aristocratici cinquecenteschi protagonisti del libro del Luigini, soggiornanti in una villa friulana a S. Martino di proprietà Godroipo, sono: Jacopo Godroipo, M.Pietro Arrigoni, Nicolò Della Fornace, un Sig. Vinciguerra, un Sig. Ladislao. Riassumo di seguito alcuni brani sottolineati durante la lettura.
I CAPELLI saranno di colore che s’assomigli al forbito, puro e ben fino oro, (…) che sieno crespi, folti e lunghi, (…) così alla donna viene il lungo a conferire grazia maggiore. Gli OCCHI vo che negri sieno come una matura oliva, come una pece, come un velluto, e tali che si assomiglino a due carboni negrissimi (…)  luminosi e sfavillanti: (…) Vorrei poscia che fossero non vaghi no, ma parchi a muovere e pietosi in riguardare. Le PALPEBRE sieno casa di loro, cioè belle a meraviglia. Le CIGLIA negre come indiano ebano. Le SOPRACCIGLIA poi, chiamate archi dall’Ariosto, saranno negrissime, sottilissime e minutissime. La FRONTE sia larga, alta, lucida e piena di divine bellezze. Il NASO sia per la mia stima picciolo, che invero un grande deforma assai la donna. La BOCCA di picciolo spazio contenta, viene non poco di grazia ad una vergine a porgere. Le GUANCE saranno tenere morbide. Piaceranno sommamente se si scoprirà in loro il bianco giglio e la vermiglia rosa, il purpureo giacinto e il candido ligustro. I DENTI simili a perle.  La GOLA di colore di marmo, (…) cioè candida si, che candidezza maggiore non apparisse né in cigno, né in giglio, né in ermellino, né in neve. Le MAMMELLE  picciole, tonde,  sode e crudette, e tutte simili a due rotondi e dolci pomi (…) a toccar dilettevoli, e a vedere similmente. Le SPALLE terse e belle, e dritte appresso, come voglio ch’elle sieno, e ch’elle vi si trovino. Le BRACCIA non picciola bellezza scorgerassi se delicate, grossette e dolci al tutto sieno e gentili. Le MANI, lunghe, tenerelle e pulite, e l’unghie somiglianti a perle orientali. I FIANCHI bisogna che sieno anzi rilevati che no. Il VENTRE dee esser netto, anzi nettissimo e tutto piano. La VULVA: il luogo onde tutti noi venimmo al mondo, sendo egli il nido del piacere, e bello quantunque si voglia, (…) sarà picciolo e poco fesso, ma sì lascivo, giocondo ed amoroso che oltre misura venga a piacere ai riguardanti, (…) che ci tira e alletta a vagheggiare solamente lui, e solamente lui avere in bocca, e di lui solamente parlare. Vò che si giudichi e creda che ognuno ivi la grazia essere nata, ivi cresciuta ed allevata, e ivi felicissimamente starsi e  godersi. Le PARTI DERETANE né ampie né picciole han da piacere, ma partecipanti tanto dell’uno quanto dell’altro,(…) cioè le NATICHE ben sospinte in fuori, così giudicando non poca parte di bellezza ad un donna aggiungersi. Le COSCE debbono essere morbidette, lascive, tremanti e piene di tutto quel bello che in somma e perfetta bellezza le ponno ridurre. Le GAMBE denno trovarsi in quella guisa formate in questa donna,(…) rotonde in lungo e non altramente. (…) Se così vi si vedranno, appariranno anzi molli, delicate e succose che no, e conseguentemente belle e riguardevoli. I PIEDI (…) brevi asciutti e rotondetti.

Il tutto supportato da  versi et altro di: Agostino, Orazio, Virgilio, Ovidio, Properzio, Tibullo, Apuleio, Petrarca (il più citato), Boccaccio, Bembo, Ariosto, Sannazzaro, Ercole Strozza.
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Federigo Luigini ( o Luisini)  è nato (la data è ignota) da Bartolomeo della nobile famiglia de’ Lovisini o Luvisini, creato conte palatino lateranense dall’imperatore Federico III con diploma datato lunedì 2 gennaio 1469, e da Paola Manini, sorella di Francesco Manini canonico e uomo dotto di Cividale del Friuli. Ha avuto per fratelli Francesco, Bernardo e Riccardo, anche loro letterati. Altro suo libro ha per titolo “Liber proverbiorum”. E’ ignota la sua data di morte. Gian Giuseppe Liuti lo annovera come autore di letteratura “femminile e galante”, poesie in lingua italiana, un sonetto in lingua friulana, e della versione italiana di un’operetta spirituale di Erasmo, in ”Notizie della vita ed opere scritte da letterati del Friuli (Modesto Fenzo Ed., Venezia 1767).

DI UN LIBRO INTITOLATO “BALTICA 9”: BIRRA SUPER E LIBRO COMICO

Potrebbe accadere a chiunque (poiché è già accaduto) di apprendere che, alle ore 21,30 di un giorno feriale qualsiasi, sarà presentato, nello spazio apposito della libreria alternativa Modo Infoshop a Bologna, un libro di Daniele Benati e Paolo Nori intitolato “Baltica 9” edito da Laterza: presenti gli autori (ovviamente!). Un libro scritto cinque anni prima della sua pubblicazione, guida ai misteri di un Oriente che cinque anni dopo risulta meno misterioso e più globalizzato.
Potrebbe accadere a chiunque (poiché è già accaduto) di recarsi in tale libreria alternativa perché intrigati dal titolo del libro, più che dalla notorietà dei suoi autori, in tempo utile per acquistarlo e leggere le prime dieci pagine di seguito, continuando a leggerlo qua e là prima della sua presentazione.
Potrebbe accadere a chiunque (poichè è già accaduto) di apprendere dai due autori che il libro non sarà presentato, ma letto qua e là senza alcuna informazione preliminare relativa all’esercizio scrittòrio compiuto.
Potrebbe accadere a chiunque (poichè è già accaduto) di proporre inutilmente ai due autori/autopresentatori di anticipare al pubblico dei presenti  (si e no 20!) qualche informazione relativa al concepimento del libro e alla sua redazione in duo.
Potrebbe accadere a chiunque (poiché è già accaduto) di disapprovare (disapprovati!) due scrittori che leggono ciò che hanno scritto autocompiacendosi e ridendosi vis a vis: protagonisti inconsapevoli di una comica e applauditi da un uditorio indulgente e amicale. Dopo aver appreso che la balticità titolata riguarda una certa birra bevuta e bevibile nei Paesi Baltici: non bevuta prima della lettura, però, dal duo protagonista del “reading” e dai  presenti plaudenti.
Potrebbe accadere a chiunque (poichè è già accaduto) di giudicare tale libro un insieme di testi televisionabili dai comici di Zelig, scritti da due autori emiliani nati molti anni dopo Georges Perec e Giani Celati, nati molti anni dopo Italo Calvino, nato molti anni dopo Raymond Queneau, nato molti anni dopo Alfred Jarry, nato molti anni dopo Clarles Cros e Isidore Ducasse comte de Lautréamont: ragion per cui non hanno potuto far parte del Collège de Pataphysique, né eseguire alcun esercizio scrittòrio per la Bibliothèque Oulipienne.
Potrebbe accadere a chiunque (poichè è già accaduto) di essere palesemente considerato imbecille da uno dei due autori di “Baltica 9” (il Paolo Nori) per aver manifestato  la propria refrattarietà alla comicità della loro scrittura.
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Daniele Benati è nato a Reggio Emilia, ma la maggior parte del tempo la passa a Budapest, dopo aver insegnato in alcune università straniere. Recentemente si è data visibilità libresca con l’eteronimo Learco Pignagnoli.
Paolo Nori, ex ragioniere con laurea in lingua e letteratura russa,  è nato nel 1963 a Parma ma vive a Bologna. Recentemente ha aperto una partita IVA per fatturare redditi diversi da quelli derivanti dalla vendita di libri del genere ”Baltica 9”.
Entrambi hanno tradotto testi d’autori stranieri noti e sono impegnati nella redazione del settemestrale “L’accalappiacani”.

DI “BALTICA 9”:  LIBRO INGANNEVOLE

“Guida ai misteri dell’oriente” è il sottotitolo ingannevole di un libro edito da Laterza che ha per titolo altrettanto ingannevole “Baltica 9”: nominazione di una birra super, anziché di una superstrada, oppure di una macroregione, oppure del nono fascicolo di una rivista culturale accalappialettori balticofili. Gli autori del libro  (Daniele Benati e Paolo Nori, nati entrambi in territorio emiliano), però,  non lo hanno detto subito ai loro afficionados convenuti nel microspazio del Modo Infoshop a Bologna, prima di esibirsi come lettori sperimentali e dilettevoli di ciò che hanno scritto cinque anni prima della data di pubblicazione: sperimentando la coniugazione dei verbi al futuro per propiziarsi attenzioni esegetiche indulgenti, anziché al passato che li avrebbe connotati viaggiatori datati su percorsi contrassegnati da una segnaletica sostituita nel frattempo perché divenuta obsoleta cinque anni dopo.
“Guida con istruzioni per l’uso” (parafrasando Perec) sottotitolerebbe convenientemente il libro intitolato “Baltica 9”, consentendo supposizioni relative a libri intitolati “Baltica 1-2-3-4-5-6-7-8) e da intitolare “Baltica 10-11-12…”. Scritti da altri autori principiando ogni paragrafo con “Mi ricordo…” ( ancora come Perec). Oppure scrivendo: ho seguito, ho trovato, sono entrato, sono uscito, mi sono accorto, anziché seguirete, troverete, entrerete, uscirete, vi accorgerete…et similia semantizzando.  Non potendo far seguire ad altri chi non li precede, non potendo far entrare altri in, nè uscire da… dove è stato possibile entrare e uscire cinque anni prima, non potendo far trovare ad altri ciò che e chi non c’è più ( comprese le doganiere, più o meno fascinose, che nel frattempo hanno imparato ad affaccendarsi in tutt’altre faccende, per es.).
Il libro intitolato “Baltica 9” sia preso in considerazione, perciò, soltanto come esercizio scrittòrio compiuto dal duo Benati & Nori, con tic verbali godibilissimi in forma recitata più che letta silenziosamente in solitudine, per dare consistenza libresca ai fogli sparsi di un taccuino di viaggio d’antan, similari ai post di un blog.
Rinunciando a seguire il modo di scrivere dei due autori come successione sintattica, per seguirla come si segue al cinema il passaggio di sequenze, considerandolo insieme di echi in successione di una lingua di pure carenze. Così che nel ruolo di lettori ci sia più agevole seguirlo considerandolo scrittura costituita da frasi che seguono la curva del parlato: dove il duo Benati & Nori tracima causa una specie connaturata di  ecolalia incontinente para-affabulatoria e simil-cabarettistica.

I SOGNI EROTICI DI SOPHIE E DI… DAVID RUSSELL

Due giovani in calore (Sophie e Simon) impegnati a trascorrere la propria stagione d’amore accoppiandosi, nella realtà e nel sogno, in ogni modo, in ogni luogo, non disdegnando l’ammucchiata.
La sorella minorenne della protagonista (Bella) che si libera molto presto della propria verginità con un quasi coetaneo (John) per “farsi” poi giovani e adulti in ogni occasione, non disdegnando i piaceri perversi e promiscui.
I loro giochi erotici con personaggi vari, in sogno, anche extraterrestri, dalla copula facile, immediata e ripetuta.
Il vissuto di ognuno mai all’altezza del sognato che, quando possono, tutti organizzano nella realtà e lo realizzano con partners occasionali (Sandra,Lucie,Milie, Nicol, Robert, Martin).
Tutto ciò è nel libro “I sogni di Sophie” di David Russell (Montjoy Editions) edito in 300 esemplari numerati, tradotto in italiano da Maria Grazia Zatti.
Il linguaggio è piano, semplice, alieno da sperimentalismi sia formali sia linguistici. I tempi narrativi risultano ritmati come nei classici racconti erotici del ’700.
Il libro è  rilegato, riccamente illustrato con 26 disegni dell’Autore, più 7 capilettera, 108 pagine. (in “Nucleo Arte”, gennaio/febbraio 1983)

Written by rossiroiss

novembre 1st, 2011 at 7:53 pm